mercoledì 14 ottobre 2009

Il "numero chiuso" visto dal mercato non funziona


Il numero chiuso è uno strumento appropriato, per selezionare gli studenti universitari? I test d'ammissione nella scorse settimane hanno tolto il sonno a buona parte della gioventù italiana. Si tratta di esami in parte basati su domande di "cultura generale" (merce sempre più rara in giro, ma non è tutta colpa dei ragazzi), in parte sul tentativo di verificare le attitudini dei futuri universitari, in parte sulla necessità di esaminare quanto effettivamente si possiedono conoscenze specifiche che si sarebbero dovute apprendere al liceo. In realtà, i test servono per trebbiare la massa di giovinotti che tentano l'ingresso in una facoltà, con il duplice obiettivo di rendere meno difficoltoso il processo di apprendimento (cui non giovano i grandi numeri) e di "garantire" in qualche maniera l'accesso alla professione, una volta conclusi gli anni di studio.

Scrivendo sul Corriere della sera (23 settembre, pagine di Milano), Gabriele Pelissero, professore all'Università di Pavia, ha posto l'attenzione su due evidenti difetti dei "test". Il primo ha a che fare proprio con quest'ultimo obiettivo "protezionistico": la promessa del "diritto al lavoro", che si concreta nella restrizione della possibilità di accesso a un mestiere. Pelissero, che è medico, ricorda giustamente come «fin dal Medioevo, le professioni erano chiuse in loro stesse, i pochi ammessi perlopiù ereditavano l'opportunità da un parente, e questo serviva a mantenere i privilegi di ogni corporazione a danno della comunità e con grande frustrazione di giovani talenti». Se volete, è la trama dei "Meistersinger": la tradizione è importante, e in certa misura ha bisogno di luoghi nei quali sia tramandata. Ma l'ottusità delle corporazioni sta nella chiusura preconcetta a ogni deviazione dalla strada segnata, a ogni innovazione. È probabile che le corporazioni effettivamente ottuse si rivelino, dal momento che la loro ragion d'essere sta proprio nel "group thinking" dei loro membri, in una identità condivisa preservata contro tutto e contro tutti.
Oggi le cose sono un po' diverse. Il numero chiuso non è che la prima barriera da scavalcare, per entrare nel club. Eppure, esso sottende già una promessa: che ci sarà un "lavoro", e quindi una remunerazione, e quindi un "posto" da qualche parte.

Ovviamente, non è assurdo pensare che ci si laurei per ottenere una conoscenza "spendibile" nella società. Tuttavia, in Paesi più meritocratici, la natura d'investimento su sé stessi dell'educazione universitaria è esplicitata in qualcosa di molto diverso e più concreto: tasse universitarie elevate. È normale, per esempio negli Stati Uniti, che ci si indebiti per perseguire un diploma in un ateneo prestigioso, perché si sa che quel diploma può aiutare a raggiungere livelli reddituali più elevati. In Italia, bisognerebbe senz'altro abolire il valore legale del titolo di studio: riforma con cui la quasi totalità degli esponenti politici si dichiara d'accordo, ma che non arriva mai a compimento. E aumentare le tasse universitarie sarebbe comunque auspicabile. Perché uno dei problemi delle nostre università è che vedono le famiglie "parcheggiare" dei ragazzi che, del tutto legittimamente, a vent'anni non hanno ancora le idee ben chiare sul loro futuro. Se i parcheggi in città costano di più, uno comincia a chiedersi se valga la pena prendere la macchina. La pretesa virtù del nostro sistema sta nel suo essere accessibile a tutti, indipendentemente dalle famiglie di provenienza.
Ci sono altri modi, però, per aiutare chi viene da una famiglia numerosa, facendo "costare" l'università così che ci vada chi effettivamente ritiene che l'istruzione valga un prezzo superiore a quello delle giornate altrimenti passate a bighellonare.

Pelissero però richiama la nostra attenzione anche su un altro fatto, non di poco conto. Il numero chiuso a medicina, scrive, esiste per via di un presunto «eccesso di medici». Si chiude la professione perché a nessuno manchi il pane. Peccato che «l'eccesso di medici è stato un problema degli scorsi decenni. L'impressione che circola in tanti ospedali è che i medici oggi manchino. Mancano specialisti anestesisti, radiologi, cardiologi, pediatri. Stanno per mancare i chirurghi, gli internisti di una volta sono quasi scomparsi e non è affatto infrequente che bandi di concorso vadano deserti».

Qui sta il vero problema dell'uso del numero chiuso come rubinetto per selezionare. I generali combattono sempre le battaglie di ieri: è difficilissimo che gli accessi "accettati" siano poi "quelli giusti".
Un saggio pianificatore non può sapere oggi quanti medici serviranno domani. Può fare ipotesi che derivano da quanti medici sono serviti ieri. Ma perché si incontrino davvero domanda e offerta, non serve una corporazione ma un mercato - in cui ci sia libertà di entrata.

Questa libertà di entrata diventa un boomerang solamente se una società crede (è purtroppo il caso della nostra) che a un certo "impegno" (in termini di tempo e di anni di studio e di voti presi) debba necessariamente corrispondere un certo "risultato" (un posto di lavoro).
Non è così. Il mondo segue regole tutte sue, e la vita delle persone è imprevedibile. Nel nostro Paese, resta difficile accettare quell'incertezza che inevitabilmente pervade le nostre vite. Così, ci inventiamo strumenti come il numero chiuso, per ridurla. Peccato che poi i test d'ingresso si rivelino una gigantesca lotteria. Combattere l'incertezza con il caos, ecco il frutto maturo del dirigismo.

Articolo di Alberto Mingardi pubblicato
Da Il Riformista, il 4 ottobre 2009
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